I riti dei padri: vini in anfora – Bertinoro 29/11/2015
Giornata Ais
Convegno e Degustazione di vini in Anfora
Il mio intervento
Presentazione del progetto: An-sòmiga-fora
L’identità dell’anfora, del vino in anfora ambisce al mono-ingrediente.
E quel mono-ingrediente è l’UVA, che corrisponde al modo più classico di servire il vino.
Come ambire al mono-ingrediente UVA?
È una strada in salita, perché se è vero che parlare del mono-ingrediente significa avere una potenzialità comunicativa – è anche vero che l’enologia moderna offre un’infinità di prodotti enologici, tecniche e tecnologie che ci allontanano anni luce dal mono-ingrediente.
Alcuni giorni fa un amico imprenditore, che produce vino, mi dice ” Bordini, io più conosco il mondo del vino e più mi convinco che in cantina si può fare di tutto”.
Questa cosa mi ha distrutto, perché si contrappone esattamente a quello in cui credo. E penso che sia anche il modello italiano su cui si dovrebbe riflettere.
Perché tanto più si usa l’additivo, tanto più ci si allontana dal mondo del vino, tanto più si rischia di perdere il territorio. E perdere racconto di quel territorio, che ritengo sia una delle cose più interessanti del Made in Italy, e che noi siamo bravi a raccontare.
Perché è così interessante parlare di anfore?
Perché queste vinificazioni per loro natura parlano del territorio e si ha la possibilità di avere una lettura profonda su come fare sintesi.
E non è detto che tutto ciò che facciamo debba essere monoingrediente e debba essere anfora. Però conoscendo quel modello e quel sistema, si può interpretare meglio cosa si può fare per rimanere territoriali.
Questo è un po’ lo spirito che è emerso nel nostro gruppo di produttori al lavoro e che ci guida in questo percorso perché parla di anfore e parla anche di noi, produttori, che con questo mezzo possiamo territorializzare ancora di più tutto quello che facciamo. L’anfora ha questa bella caratteristica: una volta che è piena, si sigilla e si riapre quattro, sei, dodici, oppure diciotto mesi dopo e in quei mesi la cantina non conta nulla.
La cosa più interessante è che il lavoro si concentra prima, in vigna.
E mettiamo ancora al centro le persone e l’uva.
La Romagna ha questo patrimonio di uve, una serie di vitigni che hanno una caratteristica molto interessante. Questa zona ha una particolarità, noi produttori inizialmente abbiamo pensato all’albana, ma ci siamo resi conto – in fondo – che il modello albana esalta un aspetto comune a molti vitigni italiani e dell’Emilia Romagna.
Il primo tra tutti è l’acidità altissima.
Per lavorare il mono-ingrediente con bassissima o zero solforosa, l’acidità è una grandissima alleata e l’Albana come il Pagadebit, la Barbera, la Rebola , sono vitigni che l’hanno nel DNA . Abbiamo così un elemento di gioco a nostro favore.
Poi subentra un altro aspetto: la grossezza della buccia e questi vitigni hanno una generosità di buccia enorme. L’albana è ricca di tannino e ci consente di mantenere intatte queste uve, lasciandoci così giocare nel dettaglio e su tutto il resto.
Parallelamente a questo, entra in gioco un altro aspetto che è parallelamente, la direzione che si vuol dare.
Perché i nostri amici georgiani, quando ci sono venuti ad insegnare come utilizzare le anfore, hanno messo al centro di tutto l’esperienza.
L’esperienza che guida una serie di discipline da mantenere, dalla raccolta, alla quantità di bucce da utilizzare. Perché, se ci chiediamo quanto deve essere ossidante il contenitore, la risposta la troviamo nella natura del contenitore: nell’anfora c’è il vino, ci sono le bucce e ci sono le fecce. È il bilanciamento tra la feccia e la buccia che permette di misurare la quantità di ossidazione e ossidabilità di quel prodotto. E ancora una volta qui subentra l’esperienza, in base a quanto le uve siano mature all’andamento stagionale, al contenitore – che necessità più o meno compendio ossidativo.
A noi cosa manca? Manca l’esperienza. Perché siamo partiti adesso. Quindi ci siamo detti che l’unica arma a disposizione – per colmare questo gap di tempo ed esperienza – era la cooperazione tra noi, dalla quale è nata un’esperienza meravigliosa.
Ci siamo detti: condividiamo tutto, le quantità in gioco sono esigue e se vinciamo, lo facciamo insieme. Abbiamo provato molti vitigni per valutare quali fossero i più idonei per l’anfora, sempre con il presupposto collettivo di fare esperienza. Abbiamo sperimentato momenti di raccolta differente, alcuni di noi hanno sacrificato la produzione, raccogliendo molto presto o molto tardi. Tutto questo, unito alla possibilità di assaggiare i vini degli altri, ha reso possibile un modello che si autoalimenta e in poco tempo siamo riusciti a fare una serie di valutazioni. Di come questo sia un modello interessante, ad esempio. Siamo alla terza vinificazione e abbiamo raccolto tutti questi elementi. Nella certezza che l’albana vinifica al meglio, scoprendo che il Pagedebit ha un potenziale acido che ci aiuta sempre nella resa. Scoprendo anche cose inaspettate come la Rebola e lo stesso Famous – che è un vitigno semi-aromatico – e nella sua natura di acino grosso, ha un’acidità che è molto stabile, anche se non estrema e ha fatto un grande lavoro. Insieme a questi vitigni abbiamo voluto provare anche il Sangiovese e il Centesimino, poi il Trebbiano e la Malvasia. È un quadro che ci ha dato una grande soddisfazione. Questi produttori stanno acquistando una grande motivazione, a lavorare a questi vitigni con una maggiore predisposizione al rispetto. L’albana – ad esempio – sta tornando ad essere un vitigno di grande qualità e ce ne stiamo rendendo conto proprio ora, lavorando con un contenitore come l’anfora che ha un ingrediente zero. I prodotti non escono tutti uguali e immediatamente ci accorgiamo di come gli ecotipi abbiano lavorato in maniera differente. Questo percorso per me è molto importante; significa essere catalizzatori di una nuova idea e un modello nuovo che – nasce per gioco – e finisce invece per essere una modalità di approccio al lavoro.